La Cina nel 1987.
Ho visitato una parte della Cina nel 1987, un’epoca in cui il turismo era lì quasi ancora sconosciuto.
La vita in Cina, dopo i lunghi e terribili decenni della rivoluzione, aveva iniziato la sua mutazione dal 1978, con la riforma voluta da Deng Xiaoping, che aveva previsto di modernizzare il Paese sia nel modo di vivere che riformando l’agricoltura, l’industria, la difesa nazionale ed il settore tecnologico-scientifico.
Nel 1987 la Cina era ancora molto povera, con un tenore di vita da paese del terzo mondo, con un popolo molto disciplinato dalle abitudini di vita molto spartane, alcune per noi stravaganti, che scompariranno nei decenni successivi.
Le automobili private erano praticamente inesistenti, le strade erano invase da biciclette e pedoni.
Per le vie di Pechino si incontravano ancora delle anziane signore dai piedi piccolissimi, che camminavano a fatica, zoppicando appoggiate ad un bastone o sorrette da un’accompagnatrice. Erano le ultime vittime di una crudele usanza ormai scomparsa dell’antica Cina, precedente alla Cina di Mao: la tradizione dei “fiori di loto dorati”. I piedi di queste donne, che nel lontano passato appartenevano alla classe elevata, erano stati deformati fin dall’infanzia e costretti entro bende strettissime per rispondere ad una inumana esigenza estetica e sociale.
Molti tra i passanti, uomini o donne, indossavano ancora i pantaloni larghi e l’informe camicione di tela in tinta unita sui toni del blu o del grigio. Ma questo costume, obbligatorio all’epoca di Mao, sopravviveva nella Cina post-Mao principalmente come indice di povertà. Gli stessi militari, indossavano divise approssimative e calzavano spesso i sandali, assumendo così un aspetto davvero poco marziale. Nei parchi regnava il silenzio, di tanto in tanto interrotto dalle melodie suonate con l’erhu, il violino cinese. Nel centro di Pechino erano ancora abitati gli ultimi hutong, i vicoli dalle piccole case grigie tutte uguali con il cortile in comune; queste modeste abitazioni tradizionali erano senza servizi e senza acqua corrente, ma rimanevano apprezzate dai pechinesi perché erano situate in centro e perché consentivano una vita comunitaria nel cortile condiviso.
I bambini, nei primi anni di vita, venivano trasportati in rudimentali carrozzine di bamboo; per i bambini più grandicelli invece si usavano dei carrelli trainati dalle biciclette. Alla scuola primaria la disciplina era ferrea, i bambini assistevano alle lezioni seduti su una seggiolina e con le mani sempre incrociate dietro alla schiena per evitare le distrazioni (sic!).
A Shanghai, città che i Cinesi consideravano “occidentale”, le automobili private erano quasi inesistenti e le vie centrali erano invase da folle di pedoni. Anche nel centro molte vie avevano un aspetto fatiscente e le rivendite di alimentari erano tutt’altro che invitanti. La vista dal Bund sul fiume Huangpu, mostrava colonne di chiatte, un indice della rinascita del commercio, ma dalla riva del fiume si vedeva sull’altra sponda un’infinita distesa di casette, proprio lì dove oggi sorge una selva di grattacieli avveniristici.
Al di fuori di Pechino e Shangai, nelle città che ho visitato, che contavano allora circa un milione di abitanti e che ora arrivano anche a 10 milioni, come Xian, Hangzhou, Suzhou, il tenore di vita era ancora più modesto, le automobili erano rarissime e nelle strade si vedevano solo biciclette e risciò a pedali. Ho visto spesso famigliole che pranzavano appena fuori dalla porta di casa su tavolini lillipuziani, oppure ragazzi sull’uscio che mangiavano in piedi reggendo in mano la ciotola del riso. I pesi venivano ancora trasportati da gente a piedi con il bilanciere ed i due cesti tradizionali sulla spalla, su un carretto a mano o sulla bicicletta.
A Suzhou, considerata per i numerosi canali la Venezia cinese, vestiti e stoviglie si lavavano nel canale adiacente all’abitazione. Qualche donna lavava accovacciata sul marciapiede in un bacile appoggiato a terra con l’acqua prelevata dal rubinetto in strada; chi aveva la lavatrice la metteva ben in vista, perché era considerato uno status symbol. I ristoranti erano molto modesti ma piuttosto frequentati e avevano per noi un aspetto poco invitante
Non ci sono più tornato, ma le fotografie scattate oggi mi mostrano un Paese irriconoscibile.
Ho visitato una parte della Cina nel 1987, un’epoca in cui il turismo era lì quasi ancora sconosciuto.
La vita in Cina, dopo i lunghi e terribili decenni della rivoluzione, aveva iniziato la sua mutazione dal 1978, con la riforma voluta da Deng Xiaoping, che aveva previsto di modernizzare il Paese sia nel modo di vivere che riformando l’agricoltura, l’industria, la difesa nazionale ed il settore tecnologico-scientifico.
Nel 1987 la Cina era ancora molto povera, con un tenore di vita da paese del terzo mondo, con un popolo molto disciplinato dalle abitudini di vita molto spartane, alcune per noi stravaganti, che scompariranno nei decenni successivi.
Le automobili private erano praticamente inesistenti, le strade erano invase da biciclette e pedoni.
Per le vie di Pechino si incontravano ancora delle anziane signore dai piedi piccolissimi, che camminavano a fatica, zoppicando appoggiate ad un bastone o sorrette da un’accompagnatrice. Erano le ultime vittime di una crudele usanza ormai scomparsa dell’antica Cina, precedente alla Cina di Mao: la tradizione dei “fiori di loto dorati”. I piedi di queste donne, che nel lontano passato appartenevano alla classe elevata, erano stati deformati fin dall’infanzia e costretti entro bende strettissime per rispondere ad una inumana esigenza estetica e sociale.
Molti tra i passanti, uomini o donne, indossavano ancora i pantaloni larghi e l’informe camicione di tela in tinta unita sui toni del blu o del grigio. Ma questo costume, obbligatorio all’epoca di Mao, sopravviveva nella Cina post-Mao principalmente come indice di povertà. Gli stessi militari, indossavano divise approssimative e calzavano spesso i sandali, assumendo così un aspetto davvero poco marziale. Nei parchi regnava il silenzio, di tanto in tanto interrotto dalle melodie suonate con l’erhu, il violino cinese. Nel centro di Pechino erano ancora abitati gli ultimi hutong, i vicoli dalle piccole case grigie tutte uguali con il cortile in comune; queste modeste abitazioni tradizionali erano senza servizi e senza acqua corrente, ma rimanevano apprezzate dai pechinesi perché erano situate in centro e perché consentivano una vita comunitaria nel cortile condiviso.
I bambini, nei primi anni di vita, venivano trasportati in rudimentali carrozzine di bamboo; per i bambini più grandicelli invece si usavano dei carrelli trainati dalle biciclette. Alla scuola primaria la disciplina era ferrea, i bambini assistevano alle lezioni seduti su una seggiolina e con le mani sempre incrociate dietro alla schiena per evitare le distrazioni (sic!).
A Shanghai, città che i Cinesi consideravano “occidentale”, le automobili private erano quasi inesistenti e le vie centrali erano invase da folle di pedoni. Anche nel centro molte vie avevano un aspetto fatiscente e le rivendite di alimentari erano tutt’altro che invitanti. La vista dal Bund sul fiume Huangpu, mostrava colonne di chiatte, un indice della rinascita del commercio, ma dalla riva del fiume si vedeva sull’altra sponda un’infinita distesa di casette, proprio lì dove oggi sorge una selva di grattacieli avveniristici.
Al di fuori di Pechino e Shangai, nelle città che ho visitato, che contavano allora circa un milione di abitanti e che ora arrivano anche a 10 milioni, come Xian, Hangzhou, Suzhou, il tenore di vita era ancora più modesto, le automobili erano rarissime e nelle strade si vedevano solo biciclette e risciò a pedali. Ho visto spesso famigliole che pranzavano appena fuori dalla porta di casa su tavolini lillipuziani, oppure ragazzi sull’uscio che mangiavano in piedi reggendo in mano la ciotola del riso. I pesi venivano ancora trasportati da gente a piedi con il bilanciere ed i due cesti tradizionali sulla spalla, su un carretto a mano o sulla bicicletta.
A Suzhou, considerata per i numerosi canali la Venezia cinese, vestiti e stoviglie si lavavano nel canale adiacente all’abitazione. Qualche donna lavava accovacciata sul marciapiede in un bacile appoggiato a terra con l’acqua prelevata dal rubinetto in strada; chi aveva la lavatrice la metteva ben in vista, perché era considerato uno status symbol. I ristoranti erano molto modesti ma piuttosto frequentati e avevano per noi un aspetto poco invitante
Non ci sono più tornato, ma le fotografie scattate oggi mi mostrano un Paese irriconoscibile.